Scrivere di scrittura e traduzione. Intervista a Beatrice Masini
«Quando si scrive per i più giovani non sono ammesse sciatterie, scorciatoie, né cedimenti modaioli o concessioni a paternalismi. Per questo è tanto più difficile scrivere per ragazzi e ragazze.»
“Scrivere di” è una serie di interviste a professionisti e professioniste che lavorano con la scrittura: arriva ogni prima domenica del mese ed è un ramo di Altenate Takes, la mia newsletter.
In questo appuntamento incontriamo Beatrice Masini: da dove comincio? Dai libri che ha tradotto o da quelli che ha scritto? Non riesco a scegliere, è quello che ho detto anche a lei proponendole l’intervista. Forse una conversazione di tanti anni fa può rendere l’idea. Nel suo ufficio, allora in Rizzoli Ragazzi, notai il libro di Claire Nivola: Orani. Il paese di mio padre1. Era esposto su uno scaffale come una cosa importante. Notò che lo osservavo. Le dissi “Che coincidenza. Orani è anche il paese di mio padre e mia madre.” Mi rispose con un breve silenzio molto masiniano e occhi a fessura, determinati: “Quelli sono libri difficili da pubblicare, ma che vanno pubblicati.” Ecco, grazie a lei ne possiamo leggere tanti, di libri che vanno pubblicati.
Ciao Beatrice, mi parli di te?
Sono una persona che scrive, traduce e si occupa delle scritture degli altri. Posso dire di averlo sempre fatto dacché ho cominciato a lavorare, prima come giornalista, poi sul resto, ovvero sui libri miei e su quelli altrui, appunto.
Mi racconti del tuo lavoro e del ruolo che ha la scrittura nelle tue giornate?
Quando traduco preparo un calendario tenendo conto del tempo e della difficoltà del libro che ho davanti a me. Molto spesso faccio uso delle vacanze, così come per le mie scritture, che fatalmente finiscono per coincidere con l’estate e Natale, come regali da me a me. Le scritture su commissione invece in genere sono più brevi e misurate e riesco a infilarle nel tempo ordinario, i sabati e le domeniche. In un mondo perfetto, e in vacanza, che è qualcosa di molto vicino a un mondo perfetto, scrivo la mattina e passo parecchio tempo a rileggere ciò che ho già scritto, cosa che poi abbrevia il tempo dell’autoediting. Tradurre richiede meno cerimonie, è come aprire e chiudere una porta, anzi, una finestra, e mi fa bene occuparmi di qualcosa che non è mio, averne cura, anche nel tempo ordinario, quindi, ancora una volta, i sabati e le domeniche. La sera non scrivo e non traduco, quello è il tempo per leggere o chiacchierare.
Come gestisci la ricerca prima della scrittura? Quanta parte del tuo lavoro occupa?
La ricerca non avviene mai davvero prima della scrittura: va in parallelo. Via via che mi accorgo di avere bisogno di informazioni più approfondite mi fermo e devio. Dando per scontato che comunque la scintilla sia già scoccata, che l’argomento-chiave sia già lì, affiorato per caso, oppure da letture che possono anche essere caso, innescate da curiosità all’inizio altrettanto casuali ma a un certo punto si rivelano fondamentali. E il tempo delle letture può anche essere stato lungo. Molto lungo. Parlo naturalmente dei romanzi a sfondo storico. Anche per la traduzione, se l’autore ha una storia, è un classico o un classico contemporaneo, procedo in parallelo; e leggerne (biografie, lettere, diari) mentre traduco mi aiuta a chiarire significati e cornici.
Come selezioni fonti e informazioni e come le organizzi per scrivere?
Organizzazione nessuna. Tengo accanto a me i libri importanti tutti irti di post-it, qualche volta prendo appunti per ridurre i passaggi fondamentali a frasi, con un rimando chiaro, in modo da ritrovare il passo originale in fretta, se serve. Questi cumuli di libri altri mi diventano molto cari, e una volta finito di leggere e rileggere li tengo riuniti in famiglie. I soli libri che ho ridiviso nella libreria sono le biografie e i saggi su Virginia Woolf, con l’idea che possano servire anche ad altri in casa.
Come trovi la concentrazione? Se ti blocchi cosa fai per ritrovarla?
Ho bisogno di riuscire a chiudere fuori tutto il resto, ovvero il lavoro sui libri degli altri, e non è sempre facilissimo. Per questo funziono meglio in vacanza, ossia quando anche gli altri lo sono, in vacanza, e c’è qualche cuscinetto di giorni a isolare la quotidianità. Diventa anche una questione geografica: io lavoro a Milano e perlopiù scrivo in campagna, sul lago di Garda. Se mi rendo conto che sono distratta o svagata vuol dire che non è il momento di scrivere e quindi faccio uso di quel tempo per leggere, o rileggermi. Con la traduzione è più semplice: avere una scadenza da rispettare aiuta a ripescare la concentrazione anche quando sarebbe un po’ diluita o insidiata dal peso delle cose di tutti i giorni.
Quali sono le sfide che affronti nell’uso del linguaggio e come le risolvi?
Traducendo ci metto un po’ ad accordare la lingua, a trovare il giusto tono, i vibrati, il ritmo. Per questo torno più volte sull’incipit, sulle prime pagine, perché sono le più difficili da mettere a punto e però devono invitare chi legge a entrare senza inciampi. Una cosa che amo tantissimo è scoprire la storia delle parole dietro le parole: a quando risale quel termine in inglese, chi l’ha usato, in che cornice. Non è detto che serva poi al lavoro in sé ma si imparano tante cose. Di recente lavorando a Wodehouse sono incappata in un’espressione bellissima: to be on velvet, ovvero star bene, anzi, benissimo, sul velluto, appunto. Wodehouse è densissimo di modi di dire ormai desueti, oppure un po’ inventati da lui, sospetto, che danno conto della sua grande libertà nell’uso della lingua.
Ci sono strumenti o gesti a cui non potresti rinunciare nelle diverse fasi del tuo lavoro di scrittura?
Non ho riti a cui aggrapparmi, però mi piace molto prima prendere appunti su quaderni comprati chissà dove oppure ricevuti in regalo. Ormai ho più quaderni da cominciare di quanti non siano i libri possibili, temo, eppure ai fogli bianchi ben rilegati non riesco ancora a rinunciare.
Come affronti la revisione del tuo lavoro?
Se posso lascio al testo un bel periodo di sonno, così mi dimentico quasi tutto e quando lo riprendo è come se fosse nuovo. Preferisco accelerare il lavoro, soprattutto di traduzione, e avere quel tempo spento per poter poi tornare su tutto con la testa fresca.
Che ruolo ha la parola “responsabilità” nella tua scrittura? C’è qualche altra parola che per te è importante, quando scrivi?
Responsabilità è una parola importante rispetto alle scritture per bambine e bambini. Sei tu, che sei grande, a scegliere cosa dire loro, e come. Anche quando lo scopo è evasione, e perlopiù lo è, quello che scegli può fare un po’ di differenza: anche solo allontanare un bambino dai libri o tenercelo vicino. Responsabilità va insieme con qualità, per quel che mi riguarda: quando si scrive per i più giovani non sono ammesse sciatterie, scorciatoie, né cedimenti modaioli o concessioni a paternalismi. Per questo è tanto più difficile scrivere per ragazzi e ragazze. Quando scrivi per adulti la responsabilità passa di mano, non è tua, o meglio continui ad averla ma solo verso te stessa.
Raccontami di due libri: quello che hai sul comodino e quello che consigli a tutti di leggere.
Due libri coi mesi nel nome. Il muflone di Sandro Veronesi – Settembre nero, intendo. E Ora che è novembre di Josephine Johnson, che ho avuto la fortuna di tradurre per Bompiani ed è uno dei libri più belli del Novecento, credo.
Era una bella intervista? Condividila: lo apprezzo molto!
Leggi le ultime interviste
Difficile da trovare, ormai, ma non disperare del tutto.