Scrivere di musica: intervista a Federico Pucci
«Credo che la lettura sia una maieutica, una disciplina di scoperta in comune che coinvolge contemporaneamente chi scrive e chi legge.»
Scrivere di è una serie di interviste a professionisti e professioniste che lavorano con la scrittura: arriva ogni prima domenica del mese ed è un ramo di Altenate Takes, la mia newsletter.
In questo appuntamento incontriamo
: giornalista, autore, editor e podcaster, dice lui. Pozzo di scienza, mi sento di aggiungere io. L’idea di questa serie di interviste mi è venuta proprio pensando al suo lavoro: “che bello sarebbe intervistare Federico su come lavora per scrivere di musica”. E finalmente eccoci: ti lascio alle sue risposte. Io ci ho trovato delle dritte interessantissime, specie per le arguzie sulla revisione in tempi ristrettissimi.Ti piacciono queste interviste? Falle circolare!
Ciao Federico, mi parli di te?
Mi chiamo Federico Pucci, scrivo seriamente di musica dal 2010. Ho fatto il giornalista per ANSA per 7 anni, ho diretto un progetto social-multimediale basato sui format video con artisti chiamato Louder, ho scritto e diretto centinaia di ore di dirette su Twitch, e ora sono freelance. Mi piace spiegare le canzoni, che è un po’ come spiegare le barzellette. Ho scritto un libro sulla storia di Carosello Records.
Mi racconti del tuo lavoro e del ruolo che ha la scrittura nelle tue giornate?
Scrivere occupa quasi interamente le mie giornate: oltre agli ingaggi con alcune testate e altri impegni di scrittura, ho una newsletter che esce due volte alla settimana, in cui mi occupo regolarmente di nuova musica, quindi le mie giornate sono occupate più dall’ascolto che dalla scrittura. Scrivo articoli di commento, analisi e recensione, occupandomi sia di musica molto mainstream (tipo i tormentoni estivi o le canzoni di Sanremo) sia di dischi decisamente più alternativi: scrivere per me è un esercizio continuo di modulazione dei registri, cercando però sempre di far emergere la mia voce. Che, per la cronaca, è la voce di una persona pedante, occasionalmente simpatica.
Come gestisci la ricerca prima della scrittura? Quanta parte del tuo lavoro occupa?
Visti i tempi solitamente molto stretti che mi ritrovo a gestire, queste due parti del lavoro sono talmente vicine da risultarmi quasi inscindibili. Ascoltare ore e ore di musica, per esempio, è parte della ricerca che posso svolgere mentre scrivo. La ricerca che comporta lettura, invece, la riservo ai momenti in cui riascolto la musica di cui devo scrivere. Quindi, la sovrapposizione di queste fasi è continua.
Come selezioni fonti e informazioni e come le organizzi per scrivere?
Nel lavoro del giornalismo musicale la prima fonte sono le etichette e gli artisti, con relativi uffici stampa: quindi parte della mia ricerca di informazioni passa banalmente dalla casella mail. Per quanto riguarda la musica internazionale, in particolare, faccio riferimento ad alcune testate molto credibili (stereogum, Farout, Pitchfork, The Fader) per non perdere notizie ed elementi rilevanti su una scena dal cui ciclo di informazione sarei altrimenti tagliato fuori. In entrambi i casi, se necessario, integro con la consultazione di saggistica specializzata (libri e pubblicazioni accademiche).
Come trovi la concentrazione? Se ti blocchi cosa fai per ritrovarla?
Prossima domanda? No, diciamo che le distrazioni arrivano soprattutto dalla somma di impegni paralleli, quindi se mi blocco faccio un bel respiro, controllo l’ordine delle mie deadline e riparto da lì. Ho notato che spesso mi rimette in moto lavorare a un file Excel, e non uno qualunque, ma il gigantesco mostruoso tabellone delle uscite discografiche che aggiorno quotidianamente e su cui mi baso per programmare i miei ascolti di ricerca e studio. Quando sistemo questo file talvolta mi ricompongo e comincio a funzionare di nuovo.
Quali sono le sfide che affronti nell’uso del linguaggio e come le risolvi?
Scrivere di musica è una sfida sul linguaggio costante: come si trasmette con competenza, ma anche con efficacia, un’idea o una valutazione legata a un ambito così distante dalla parola scritta? Diciamo che mi pongo prima di tutto la priorità della chiarezza, per cui cerco di evitare termini troppo tecnici della teoria musicale o del linguaggio della scienza acustica, se intoppa lo scorrimento del senso. Ma non ci rinuncio, perché credo che la lettura sia una maieutica, una disciplina di scoperta in comune che coinvolge contemporaneamente chi scrive e chi legge: non voglio, insomma, togliere del contenuto più denso, se contribuisce a quello che intendo esprimere. In questi casi, cerco di isolare questa parte del discorso: metto un punto, scrivo la mia frase un po’ più tecnica, e proseguo. Così il lettore può saltarla agilmente, se ritiene che sia il caso.
Ci sono strumenti o gesti a cui non potresti rinunciare nelle diverse fasi del tuo lavoro di scrittura?
Le cuffie con cui ascolto quasi tutto, per non disturbare la mia compagna e collega di studio domestico. Il pianoforte digitale che utilizzo per testare alcune mie idee su una melodia o un giro armonico che ho sentito in una canzone. Il poggia PC sul quale trasporto il mio computer portatile in ogni angolo della casa che mi sembri l’ufficio ideale, in quel momento.
Come affronti la revisione del tuo lavoro?
Di nuovo, con i tempi molto stretti, la revisione è fatta in un soffio: mi sogno ancora la notte certe ripetizioni brutte che ho lasciato dentro articoli di mesi fa. Dato che mi occupo di una materia sfuggente – comprensibile a chiunque abbia mai ascoltato una canzone, ostica se trattata con precisione tecnica e in modo analitico – il mio obiettivo principale in sede di revisione è che… “si capisca”, che i periodi troppo densi non si susseguano uno dopo l’altro. E poi sono ossessionato con i motivi: dato che per scrivere qualcosa con una tesi forte ci sarebbe bisogno di molto più tempo, mi affido ai motivi ricorrenti per guidarmi nell’atto di evidenziare il messaggio del mio testo. Insomma, insisto e insisto finché la tesi non emerge da sola in chi legge. E quindi, dopo aver corretto (e inevitabilmente lasciato decine di refusi!), mi dedico a capire se nella lettura emergono questi motivi.
Che ruolo ha la parola “responsabilità” nella tua scrittura? C’è qualche altra parola che per te è importante, quando scrivi?
Ogni giorno si pubblicano decine di migliaia di nuove canzoni sulle piattaforme streaming, e i musicisti sono tra gli influencer più seguiti e attivi: siamo bombardati di contenuti “musicali”. La mia responsabilità è la curatela del tempo altrui. La musica è l’unica arte che percepiamo solamente nel tempo: inevitabilmente ci viene naturale pensare che la musica “occupi” questo nostro tempo. E allora, cerco di dare un senso a queste personali e idiosincratiche occupazioni di tempo, usandomi come esemplare (o cavia!) grazie al fatto che mi piace ascoltare davvero un po’ di tutto, e quindi credo di potermi mettere in contatto con i gusti di molte persone diverse.
In pratica, quando scrivo cerco di rispondere a domande che nessuno ha posto, del tipo: perché vale la pena ascoltare un certo disco, dedicandogli un’ora di tempo delle nostre giornate sempre più fitte e incasinate? Oppure, come mai sto dedicando ore per ascolti a ripetizione di una certa canzone che ho sentito sui social o alla radio e mi è rimasta nelle orecchie? “Tempo”, effettivamente, è la parola più importante. Sono uno di quelli che lo vede sempre scappare e che prova a comprimerlo: la scrittura è un discreto compressore di tempo. E quindi la responsabilità è anche verso di me.
Raccontami di due libri: quello che hai sul comodino e quello che consigli a tutti di leggere.
Al momento sto leggendo Listen di Michel Faber (in Italia si intitola Ascolta e l’ha pubblicato da poco La Nave di Teseo) che prova a capire perché siamo così esaltati dall’ascolto musicale, come mai gli dedichiamo tanta attenzione e lo consideriamo tanto importante. Mi aiuta leggere libri che affrontano la questione musicale “dall’alto”, perché siamo talmente propensi a creare mitologie riguardo la creatività, che ogni sano ridimensionamento mi torna utile. Utile come ascoltatore, ma anche come scrittore di testi sulla musica: in entrambi i casi si cade facilmente nel luogo comune del genio, e non ci si interroga sulle ragioni del proprio gusto. Io trovo che la composizione e produzione musicale siano effettivamente “magiche”, e non voglio svelare “trucchi” che peraltro conosco solo in parte (altrimenti farei musica io, no?). Ma perché un gioco di prestigio ci lascia a bocca aperta e un altro ci annoia, questo mi interessa capirlo, perché lo considero un atto di empatia, di comprensione di come è fatto l’altro e come sono fatto io. Questo non è sicuramente il libro più tecnico al riguardo che abbia mai letto – sono appassionato di neuroscienziati come Daniel Levitin che “spiegano” il funzionamento del cervello esposto alla musica, per esempio, o di tecnici come Damon Krukowski, che fanno riflettere sulla differenza (culturale oltre che fisica) tra rumore e segnale – ma ha un approccio largo, anche scientifico, che dà soddisfazione.
Un libro che consiglio a tutti di leggere, a questo punto rimanendo in ambito musicale, è Let’s Talk About Love (tradotto Musica di merda nell’unica edizione italiana) che si pone l’obiettivo di comprendere perché ci piace quel che ci piace, compresa la musica brutta, commerciale, banale – il sottotitolo è Viaggio al termine del gusto e si viaggia davvero. Un libro di critica ma anche di illuminazione personale. E, barando, voglio citare anche un libro italiano e recente, Oh, oh, oh, oh, oh di Fabio De Luca, che con la scusa di spiegare l’origina di Vamos a la playa dei Righeira e di raccontare cos’è stato il 1983, finisce per esplorare le ossessioni e le manie. E in fondo, ascoltare ore e ore di musica al giorno, non è forse una mania?
Grazie Letizia! Intervista piacevolissima, in cui sono riuscita a cogliere consigli molto utili di scrittura (non bastano mai :) ).