Fare la ghostwriter. Intervista a Serena Piazza
«La voce è la chiave di tutto. Ogni personaggio ha la sua e per nessuna ragione posso prestargli la mia: la storia che sto raccontando non è mia.»
“Scrivere di” è una serie di interviste a professionisti e professioniste che lavorano con la scrittura: arriva ogni prima domenica del mese ed è un ramo di Altenate Takes, la mia newsletter.
In questo appuntamento incontriamo Serena Piazza: ci siamo conosciute negli anni in cui lavoravamo entrambe in Rizzoli, e abbiamo cementato la nostra amicizia con pessimo tè e snack discutibili alle macchinette delle salette caffè. Quando si sta insieme nelle difficoltà si diventa amiche davvero. Serena fa (anche) la ghostwriter, ed è di questo che ci parlerà nell’intervista. Ha tradotto diversi libri, e ne ha scritti a suo nome: tra questi uno dei miei preferiti è Rhapsody in blue. Parole dalla musica di George Gershwin.
Ciao Serena, mi parli di te?
Faccio la ghostwriter dal 2013. Ho iniziato quando lavoravo nella redazione della Rizzoli Ragazzi. La mia responsabile di allora, Beatrice Masini, sapeva delle mie collaborazioni giornalistiche e mi disse: “Sei brava. Io dico che puoi scrivere anche dei libri”. E mi mandò in Sicilia per raccontare la storia di una ragazza impegnata nella battaglia contro la mafia. Un viaggio che mi servì a chiudere un cerchio importante della mia vita, ma questa, come si dice, è un’altra storia.
Mi racconti del tuo lavoro e del ruolo che ha la scrittura nelle tue giornate?
Sono arrivata tardi, a quasi trent’anni, e con fatica a scoprire che la scrittura è l’attività che mi viene più naturale al mondo. Quando scrivo – e anche quando studio, perché studio e scrittura sono strettamente connessi, per me – sono un pesce nell’acqua. Per questo sei anni fa ho scelto di diventare freelance, per scrivere a tempo pieno.
Fare il ghost, però, succhia un sacco di energie. Un ghostwriter è uno scrittore, ma anche un po’ uno psicologo perché viene a contatto con la parte più intima dei personaggi con cui lavora, deve trovare la persona dietro il personaggio. Non è un caso se si fa sempre un incontro preliminare per capire se c’è intesa. Per fare bene questo lavoro devi saperti mettere nei panni dell’altro. E per farlo l’unico modo è passare del tempo insieme (da qualche giorno a poche ore) e parlare tantissimo per raccogliere le informazioni necessarie al libro, certo, ma anche per comprendere tutti i giri che può fare una vita. Riemergono ricordi di infanzia, episodi anche piccoli ma carichi di significato, dolori, paure, aspirazioni. E tu devi essere aperta, pronta ad ascoltare e a volte a condividere pezzi della tua vita. Insomma, devi mettere in conto un grosso investimento emotivo se vuoi scrivere un bel libro.
Per questo non scrivo come ghost tutto l’anno. Ho bisogno di fermarmi tra un titolo e l’altro. Nei momenti di pausa faccio l’editor e mi prendo cura dei libri scritti da altri, che è sempre scrivere, ma si tratta di una scrittura che impegna una creatività diversa.
Poi ci sarebbe il capitolo “i miei libri”, quelli che sei anni fa immaginavo avrei scritto grazie al fatto che, cavoli, adesso posso organizzarmi le giornate come voglio. Ho pubblicato l’ultimo titolo a mio nome nel 2015. (dissolvenza)
Come gestisci la ricerca prima della scrittura? Quanta parte del tuo lavoro occupa?
Per me la ricerca prima delle scrittura è fondamentale. Anzi, la ricerca prima dell’incontro con l’autore è fondamentale. Senza ricerca io non saprei cosa domandare, quali aspetti approfondire, non potrei immaginare la scaletta del libro da proporre all’editore, prima, e all’autore, poi. Fatto quattro quarti il lavoro, direi che la ricerca ne occupa un quarto. Altri due sono dedicati alla progettazione e scrittura, e uno alla revisione.
Come selezioni fonti e informazioni e come le organizzi per scrivere?
La selezione di fonti e informazioni cambia a seconda del libro da scrivere.
Per le biografie passo ore su internet fra blog, quotidiani, riviste e profili social del personaggio, ma di solito cerco anche articoli di giornali cartacei. Invece, evito le biografie dello stesso personaggio già pubblicate per non restarne influenzata.
Per i romanzi faccio una ricerca più mirata sugli interessi dell’autore per capire quale tipo di storia proporgli, oppure per capire come sviluppare la storia e i personaggi che ha proposto. Anche qui si tratta principalmente di una ricerca online e anche in questo caso non leggo mai romanzi con storie simili a quella che dovrò scrivere, mentre leggerei i romanzi firmati dallo stesso autore se mi capitasse di fare la ghost di un romanziere “puro”.
Per i libri di attualità firmati da giornalisti, cerco online tutto quello che hanno detto e scritto sulla specifica materia che tratterà il libro, e leggo eventuali altri libri dello stesso autore sulla stessa materia. Solo per questo tipo di libri cerco almeno uno o due saggi per rendere più solide le mie competenze, ma è chiaro che nel libro entrano soltanto le tesi dell’autore che lo firma.
Mentre per la ricerca lavoro molto online, nell’organizzazione delle informazioni sono ancora analogica e riempio fogli e fogli di appunti. La scrittura su carta mi aiuta ad assorbire le informazioni. Quando ho finito la ricerca, riprendo gli appunti e comincio a valutarli dal punto di vista dell’attendibilità della fonte e dell’utilità rispetto al libro da scrivere. Le fonti meno attendibili e i contenuti meno coerenti o interessanti finiscono in fondo alla lista e finora sono sempre rimasti lì inutilizzati. Diciamo che sono più che altro una coperta di Linus.
Come trovi la concentrazione? Se ti blocchi cosa fai per ritrovarla?
Una volta che ho cominciato a scrivere, se mi blocco è difficile che sia per un problema di concentrazione. In genere succede perché ho perso la voce o il pezzo che sto scrivendo stride nella costruzione narrativa. Allora lo abbandono e vado oltre, a un altro capitolo o a un altro paragrafo. La cosa importante è non fermarmi, altrimenti per riprendere il filo dovrò rileggere tutto da capo (e se sono a metà libro, per dire, è un dispendio di tempo che non posso permettermi). A volte, quando capisco che si tratta di un blocco momentaneo, che mi manca solo la parola giusta, il giro di frase più pulito, uso un trucco che mi ha insegnato un’amica nella mia primissima redazione giornalistica: digito a caso sulla tastiera sequenze di lettere senza senso, basta scrivere, arrivare in fondo a due o tre righe. Qualcosa alla fine si sblocca sempre.
Ma, come ti dicevo, in generale per me il vero problema non è tanto la concentrazione quanto la voce. La voce è la chiave di tutto. Ogni personaggio ha la sua e per nessuna ragione posso prestargli la mia perché la storia che sto raccontando non è mia, nemmeno se si tratta di un romanzo. Per trovare la voce faccio una full immersion nel personaggio, leggo e rileggo le fonti, guardo e riguardo le interviste, soprattutto sbobino parola per parola le registrazioni delle conversazioni, leggo e rileggo tutta la sbobinatura e vado avanti a “masticarla” finché non arriva l’incipit del libro. È come se dovessi riempirmi della vita dell’autore, una parola alla volta, un gesto alla volta, come la direbbe questa cosa?, noterebbe quest’altra?. All’improvviso arriva la prima frase e il resto viene da sé.
Quali sono le sfide che affronti nell’uso del linguaggio e come le risolvi?
La sfida più grande di tutte è la fedeltà all’autore. È la sua vita che lo ha portato a scrivere il libro, è famoso per il suo lavoro, per il suo talento, per una sua vicenda personale e io sono al suo servizio. Quindi, non posso travisare quello che mi dice, non posso inventare, né sovrainterpretare. Devo restare fedele al suo racconto e renderlo narrativamente interessante in modo onesto, senza fronzoli, senza imbrogli, facendo in modo che leggendolo lui per primo ci si riconosca. Il personaggio deve guardarsi allo specchio quando legge ciò che ho scritto, anzi, che abbiamo scritto.
E la fedeltà passa dal linguaggio, dalla mia capacità di saper individuare le parole che usa più spesso, le espressioni idiomatiche che ripete, quel suo certo modo di costruire le frasi. Lo faccio, come ti dicevo prima, sbobinando parola per parola ore e ore di conversazione. Non tralascio niente. Per un periodo ho provato a usare un software per questa parte del lavoro, solo che risparmiavo tempo ma perdevo contatto con l’autore, facevo una enorme fatica a metterlo a fuoco. Così sono tornata a sbobinare senza aiuti tecnologici perché la mia sfida è tutta nel linguaggio: capire il modo in cui l’autore si manifesta nel mondo – perché in fondo il linguaggio che altro è? – e restargli fedele dalla prima all’ultima riga.
La gioia più grande è quando l’autore si riconosce nel suo libro, o quando un lettore dice: “Sembra di sentirlo parlare”.
Ci sono strumenti o gesti a cui non potresti rinunciare nelle diverse fasi del tuo lavoro di scrittura?
Non potrei mai rinunciare al mio fido registratore. È ancora quello con cui affrontai il viaggio in Sicilia di cui ti parlavo prima. È venuto con me ovunque, a casa di cantanti, atleti, in alberghi, stazioni, giardini pubblici, bar e ristoranti chiassosi, cucine familiari e accoglienti. Nella custodia tengo sempre una scorta di batterie perché ho il sacro terrore di restare a piedi. E, nonostante nello smartphone io abbia una pratica app per registrare gli audio, non ce la faccio. Come il mio registratore c’è solo il mio registratore. Il gesto di collegarlo al computer e scaricare i file è quello che per me dà inizio alla scrittura. È un rito a cui non rinuncerei mai.
Come affronti la revisione del tuo lavoro?
Riguardo al tema della revisione, devo distinguere fra la mia revisione, quella dell’editore e quella dell’autore/personaggio.
La mia, che di solito faccio dopo almeno una settimana dalla fine della scrittura, è impietosa. Non mi perdono niente né a livello linguistico né a livello narrativo. Il testo deve essere al meglio quando arriva nelle mani dell’editore.
La revisione dell’editore la vivo con un misto di ansia e trepidazione. L’ansia nasce dal timore di non aver centrato l’obiettivo, di non aver capito fino in fondo il progetto, di essere stata oscura o noiosa. La trepidazione è inevitabile, come quando aspetti che una persona apra il regalo di compleanno che le hai fatto. È una sensazione impagabile, un pizzicore alla punta del naso.
Invece, quando il testo passa nelle mani dell’autore/personaggio per la sua revisione, sono tranquillissima. Sono pronta a cambiare qualsiasi cosa, anche tutto il libro se serve, perché la regola aurea resta sempre la stessa: la storia è sua e può farne ciò che vuole.
Che ruolo ha la parola “responsabilità” nella tua scrittura? C’è qualche altra parola che per te è importante, quando scrivi?
La parola “responsabilità” è centrale nel mio lavoro.
C’è la responsabilità verso l’autore, che si traduce in quella fedeltà di cui ti parlavo prima, ma anche nella capacità di guidarlo, consigliarlo e soprattutto rispettarlo come persona al di là del personaggio. A volte capita di venire a conoscenza di fatti privatissimi. Al netto del fatto che sono tenuta al segreto professionale, per me essere responsabile significa capire come raccontare anche questi fatti che magari sono interessanti per l’editore – e, quindi, nel libro sono importanti – ma molto delicati per chi me li ha raccontati.
La responsabilità che mi assumo verso l’editore è quella di valorizzare al massimo la storia che mi ha affidato. Vanno messe al bando le soluzioni facili o superficiali. Una delle editor con cui lavoro più spesso, al primo libro insieme (che andò molto bene) mi disse che la firma di una celebrità su un libro non basta per avere buoni risultati perché i lettori non sono stupidi, vogliono quello che vogliono tutti i lettori: un bel libro. E, secondo me, nel mio mestiere un bel libro non è quello che svela il dettaglio piccante, il dolore incolmabile o la relazione pruriginosa, ma è quello che racconta con una bella scrittura e con onestà una vita che, stringi stringi, è più simile alle nostre di quanto pensiamo.
E, sì, c’è un’altra parola importante per me quando scrivo: delicatezza. Che si tratti di un personaggio famoso o di un perfetto sconosciuto, sono convinta che nella vita degli altri bisogna sempre entrare in punta di piedi. Cerco di usare con gli altri la delicatezza che vorrei fosse usata con me. Suona un po’ evangelico, mi rendo conto, ma trovo che sia un’ottima regola nel lavoro e nella vita in generale.
Raccontami di due libri: quello che hai sul comodino e quello che consigli a tutti di leggere.
La fai facile! Allora, la verità è che ho due pile di libri sul comodino e una per terra accanto al comodino. Alcuni sono cominciati, altri sfogliati, altri non ancora aperti. Se devo scegliere d’istinto, ti dico quello che rappresenta meglio la mia nuova fissazione: Ricordo di Lampedusa di Francesco Orlando (edizioni Henry Beyle). Questa estate ho recuperato una delle mie lacune più assurde e ho letto Il Gattopardo. Boom! È scoppiato un amore assoluto e ora inciampo di continuo in libri legati in qualche modo a Tomasi di Lampedusa o al suo romanzo. Voglio saperne sempre di più, è una specie di droga.
Scegliere un libro da consigliare a tutti è ancora più complicato. Sono da sempre una lettrice compulsiva e onnivora. Ci sono così tanti libri che vorrei leggessero tutti! Consiglio quello che rileggo più spesso, in traduzione e in lingua originale: Il buio oltre la siepe di Haper Lee. Fu il mio libro di narrativa in seconda media, in un’edizione Sansoni, se non ricordo male, con tanto di schede di lettura a fine capitolo. Da allora non l’ho mai abbandonato, eppure a ogni nuova rilettura trovo sempre qualcosa di cui meravigliarmi. Darei non so cosa per saper scrivere un libro come quello.
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Ma che bel pezzo! Non capita spesso di sentir raccontato così onestamente, in modo schietto e senza "aura magica" il nostro lavoro. Mi ha dato davvero gusto leggere (e ritrovarmi). Grazie!!!
È stata una bellissima ispirazione, grazie!