Scrivere di vino. Intervista a Barbara Sgarzi
«Il mio lavoro assomiglia molto a quello dello scultore che tira fuori una figura da un blocco di marmo. La vera fatica è capire cosa togliere per farla uscire fuori.»
“Scrivere di” è una serie di interviste a professionisti e professioniste che lavorano con la scrittura: arriva ogni prima domenica del mese ed è un ramo di Altenate Takes, la mia newsletter.
In questo appuntamento incontriamo Barbara Sgarzi: un’eccellente giornalista e autrice, con la quale posso vantare un’amicizia molto allegra, basata sulle somiglianze tra sarde (io) e liguri (lei), su gatti che soffiano e fanno la gobba, sugli spritz al Bar Basso di Milano (ma anche a Perugia, o a Trieste, dove volete).
Mi fa un enorme piacere che abbia accettato di rispondere alle mie domande con tanta generosità. E ora a te gustare la lettura.
Ciao Barbara, mi parli di te?
Sono giornalista, ho avuto la fortuna di partecipare al primo avvento di Internet e quindi di poter osservare da vicino l’evoluzione della comunicazione e della scrittura online che è stato pure l’argomento della mia tesi, nel lontano 1997. Insegno all’università, ogni tanto scrivo qualche libro e sono sommelier AIS, un corso fatto per divertimento e che è diventato una parte importante del mio lavoro. Scrivo da quando ho memoria, farei solo quello nella vita, poi però quando devo farlo e ho una scadenza, piuttosto che iniziare mi metto ad appaiare i calzini.
Mi racconti del tuo lavoro e del ruolo che ha la scrittura nelle tue giornate?
Come quello di molti liberi professionisti, il mio lavoro si compone di tante parti diverse. Scrivo, insegno e faccio consulenze. La scrittura è sempre presente in ogni aspetto del mio lavoro; gli articoli e i libri, ovviamente, ma anche i progetti, il materiale da preparare per l’aula, fino alle mille mail che mando ogni giorno e che cerco sempre di scrivere davvero, per bene, personalizzandole, perché per me è una questione di rispetto per chi legge.
Come gestisci la ricerca prima della scrittura? Quanta parte del tuo lavoro occupa?
Una parte enorme. Il lavoro di ricerca per me è la parte più bella e gratificante. Purtroppo non riesco a, come si dice, “ottimizzarla”, nel senso che mi piace così tanto che ci dedico circa il quadruplo del tempo che servirebbe. Parto magari da uno spunto, da una cosa che ho letto, penso che ci potrei scrivere un articolo, e dopo ore e ore online e sui libri finisco per avere materiale per una tesi di laurea, quando magari lo spazio per l’articolo è di 5.000 battute. La verità è che avrei voluto continuare a studiare e a fare ricerca tutta la vita ma ahimè, non ho trovato nessuno che mi mantenesse agli studi!
Come selezioni fonti e informazioni e come le organizzi per scrivere?
Sono molto disordinata e questo mi costa spesso altro tempo per ricercare fonti e documenti che perdo per strada mentre navigo e vago tra mille siti senza sapere, alla fine, perché mi trovo lì. Ho smesso di combattere questa tendenza: un po’ era inutile, un po’ credo nella serendipity, un po’ penso che questo sia il modo in cui funziono meglio. Sono molto stanca di tutti quelli che ti insegnano a vivere cambiando il tuo modo di lavorare, per cui a questo punto continuo così: finora, male non è andata. Quindi, dopo il monumentale lavoro di ricerca di cui sopra, salvo tutto in una nuova cartella e inizio a scrivere una prima bozza su un file di Word, che man mano diventerà il pezzo (o il libro) definitivo. Molto semplice, piuttosto caotico, ma alla fine mi ci ritrovo. Devo avere sotto gli occhi tutto il materiale prima di decidere cosa selezionare. Il mio lavoro assomiglia molto a quello dello scultore che tira fuori una figura da un blocco di marmo. La figura è già dentro quel blocco di marmo, la vera fatica è capire cosa togliere per farla uscire fuori.
I libri sono una cosa a parte. Normalmente, quando ho scritto saggi o manuali, avevo già in testa la struttura, sapevo già cosa volevo dire e quindi sono partita dai capitoli e man mano ho “riempito” l’indice. Con l’ultimo, che è fatto da più di trenta interviste a grandi donne del vino, ho fatto l’opposto. Ho prima fatto tutte le interviste (una parte del mio lavoro che adoro), le ho rilette tutte insieme e ho creato la suddivisione del contenuto grazie ai temi comuni che emergevano dalle parole di donne diversissime fra loro per nascita, cultura, esperienze. Mi sono fatta guidare dal contenuto e dalle loro risposte e ho trovato l’indice così.
Come trovi la concentrazione? Se ti blocchi cosa fai per ritrovarla?
Dolentissime note. Non ho mezze misure: o scrivo ininterrottamente come in preda a una trance (succede raramente), o perdo la concentrazione ogni cinque minuti (molto spesso) e procrastino fino a un’ora dalla scadenza della consegna. Provo a ritrovarla facendo tutte cose che fanno male: fumo, o mangio una caramella, o mi faccio un caffè. Quando proprio non c’è verso, se posso, esco a camminare o cucino qualcosa, poi torno alla scrivania.
Quali sono le sfide che affronti nell’uso del linguaggio e come le risolvi?
In generale, cerco di essere molto comprensibile. Ho scritto per parecchio tempo di quelle che venivano chiamate (e da alcuni vengono chiamate tuttora) “nuove tecnologie” e per me la cosa importante era fare divulgazione, davvero. Farmi capire. Tanti anni di aula mi hanno insegnato che le persone ti perdonano tante cose, tranne il farle sentire sciocche o inadeguate. Per cui in quel caso la sfida era essere chiara senza sacrificare troppo lo stile, senza essere didascalica, senza eccessi di semplificazione. Ho letto recentemente al Muse di Trento una frase di Einstein: “Everything should be made as simple as possible, but not simpler”. Ecco, l’obiettivo è questo.
Da quando scrivo anche di vino, questa sfida è ancora più importante, perché mi sono resa conto che molte persone, che pur lo amano e apprezzano, del vino ignorano i tecnicismi, e nemmeno interessa loro saperli. Quindi bisogna raccontarlo cercando di evocare ricordi, sensazioni, emozioni, facendo similitudini e metafore, scrivendo per immagini.
Ci sono strumenti o gesti a cui non potresti rinunciare nelle diverse fasi del tuo lavoro di scrittura?
Paradossalmente, quando scrivo sono molto poco tecnologica. Alle conferenze stampa e durante le interviste prendo ancora appunti a mano. A mano ho abbozzato la struttura dei miei libri. Carta e penna sono ancora la cosa migliore per me per chiarirmi le idee e soprattutto far funzionare la memoria; ciò che scrivo a mano su un foglio non lo dimentico più. Quindi, non potendo consegnare fogli scarabocchiati, l’unico strumento che mi serve è Word. E Google, ovviamente. Per il resto, posso scrivere ovunque, dal treno al divano, con il conforto del generi sopracitati: sigarette, caramelle, caffè. E, se c’è troppo rumore, al quale sono particolarmente sensibile, con le cuffie e il white noise. Ho una playlist "Rumore del mare” che dura sei ore. Praticamente l’ho consumata!
Come affronti la revisione del tuo lavoro?
Quando ho finito, lascio il testo a decantare per un po’ - ore o giorni, a seconda del tempo che ho a disposizione. Poi rileggo, controllo tutto, ogni nota, ogni link, ogni riferimento. Ho molto occhio per i refusi, avendo lavorato tanti anni in redazione “passando” i pezzi altrui. Ma ovviamente i miei non li vedo mai e siccome non li tollero, rileggo fino alla nausea. Spesso mi rendo conto che quello che ho scritto e mi sembrava lampante in realtà era chiaro solo nella mia testa, per cui esplicito, spiego meglio, aggiungo esempi. Soprattutto, leggo facendo risuonare le parole nella testa, per controllare il ritmo. Sono convinta, con Robert Frost, che “The ear is the only true writer and the only true reader.” Bisogna ascoltare il flusso della frase, la musica, per capire se è costruita bene.
Che ruolo ha la parola “responsabilità” nella tua scrittura? C’è qualche altra parola che per te è importante, quando scrivi?
La responsabilità è, innanzitutto, nel controllo delle fonti e nell'accuratezza. La fase di revisione, come dico sopra, per me è fondamentale perché il pressapochismo mi infastidisce molto. In più con la sovrabbondanza di contenuti a disposizione, spesso sciatti e superficiali, essere accurati è un modo per distinguersi. Citerei anche l’inclusività, anche se ormai è una parola talmente usata da aver perso molto significato. Però, scrivendo di vino, un settore ancora molto maschile, sto molto attenta a non utilizzare cliché vetusti e fastidiosi. Banalmente, parlare di vini “che piacciono alle donne” o usare, per descriverli, aggettivi in qualche modo sessualizzati. Una giornalista ed esperta di vini francese, Sandrine Goeyvaerts, ha scritto un interessante pamphlet che s’intitola Manifeste pour un vin inclusif, ragionando proprio di questo. Cerco di ispirarmi anche al suo lavoro.
Raccontami di due libri: quello che hai sul comodino e quello che consigli a tutti di leggere.
Sul comodino ho Quando abbiamo smesso di capire il mondo, di Benjamin Labatut. Non lo avevo ancora letto perché in passato mi sono scontrata con libri di divulgazione scientifica che non mi sono piaciuti o che non ho capito o che mi hanno irritata. Questo è una piacevolissima sorpresa, a proposito della capacità di divulgare.
Difficile scegliere un solo libro che consiglio ma, dovendo proprio, direi Il memoriale del convento di Saramago. Oltre a essere il testo da cui ho tratto quello che era il mio nickname su Internet, nell’era pre-Facebook quando nessuno navigava con il proprio nome - Blimunda - credo sia il capolavoro di quell’autore di capolavori che è stato Saramago. Amore, fatica, religione, storia, magia, potere, povertà, disperazione; c’è dentro tutto, è un libro universale, e visto che si parla di scrittura, credo che nulla possa eguagliare la sua prosa.
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Bellissima intervista. Mi ritrovo perfettamente nella scelta della scrittura (e dell'immane lavoro di ricerca sottostante ad essa) come 'escamotage' per continuare a studiare e produrre - ma sì, osiamo dirlo! - CULTURA, in una realtà più che altro votata all'INFORMAZIONE. Di conseguenza, la chiamata alla responsabilità dell'accuratezza è significativa.